Giancarlo Loffarelli, un uomo come pochi
Quando si parla di artista, spesso e volentieri s’immagina un ragazzotto bello e dannato, un po’ squilibrato e stravagante capace di stupire con stranezze sia artistiche che personali. Giancarlo Loffarelli è l’esatto opposto di questo fuorviante cliché. Un uomo come ce ne sono davvero pochi, una persona dalla rara ricchezza d’animo che, per chi ha la fortuna di conoscerlo, lascia il segno. Come scriveva il sociologo Georg Simmel, “possono donarsi totalmente solo quelle persone che non hanno paura di esaurirsi nel darsi”, Giancarlo Loffarelli si spende attraverso tutte le forme artistiche con le quali è capace di veicolare l’importanza del sapere: è la cultura che si fa persona, è la moderazione dei comportamenti che protegge l’intimo fuoco della creatività, è il grande spessore umano ed artistico che si esprime nella modestia e nella costante predisposizione all’ascolto e al dialogo, è l’amore per la conoscenza, l’approfondimento e l’arte della comunicazione, è la passione per il mondo del teatro a 360 gradi. È la coscienza di avere un talento, anzi più talenti, che possono servire agli altri, è la consapevolezza che il suo contributo passi attraverso la sensibilizzazione del pubblico e la proposizione di stimoli culturali nuovi, che la crescita culturale della collettività sia un preciso dovere, che l’evoluzione della società avvenga mediante l’avvicinamento all’arte, e che un mondo migliore si costruisce ogni giorno, a cominciare dal migliorare se stessi. Maestro per molti ma mai nel suo modo di porsi, Loffarelli è, infine, l’eccezione alla regola di nemo profeta in patria. La sua scrittura teatrale è, infatti, da anni un fiore all’occhiello nello scenario nazionale ed estero, e il suo nome è annoverato tra i migliori e più interessanti autori italiani che continuano a credere, raggiungendo risultati eccellenti, nell’importanza delle operazioni culturali promosse e pensate con serietà e professionalità. Giancarlo Loffarelli, classe ’61, da quasi trent’anni si divide tra la cattedra e il palcoscenico, dove veste i panni di attore, sceneggiatore e regista nella compagnia Le Colonne, storica compagine setina che dal 1979 lavora come associazione culturale nell’ambito della ricerca teatrale. Diplomato in Teologia, laureato in Filosofia presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza” e, sempre presso la stessa Università, in Lettere (presso il Dipartimento di Musica e Spettacolo) con tesi di laurea in Storia e critica del cinema, Loffarelli ha all’attivo numerosi copioni di tutto rispetto, che spaziano da traduzioni e rivisitazioni dei grandi classici a testi brillanti, inediti o suggeriti da pellicole cinematografiche mai tramontate. È stato allievo di Ugo Pirro (premio Oscar per la sceneggiatura del film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri) per quanto riguarda l’attività di sceneggiatore e ha realizzato cortometraggi e documentari, anche come regista, da sue sceneggiature. I suoi lavori hanno girato l’Italia, e per quasi un decennio sono stati protagonisti delle stagioni teatrali pontine dedicate alle scuole superiori, per le quali il nostro ha sempre ricercato e rielaborato per i più giovani, le immortali verità dei temi trattati dai grandi scrittori, da Pirandello a Cechov, da Shakespeare a Dostoevskij. Ma per Giancarlo le soddisfazioni più importanti arrivano dai testi che nascono dal suo cuore. Vincitore come miglior testo alla 66^ Edizione del Festival nazionale d’arte drammatica di Pesaro, il più antico e prestigioso concorso teatrale d’Italia dove, con Se ci fosse luce – i misteri del caso Moro, la Compagnia Le Colonne ha incassato l’ennesimo riconoscimento di peso per uno degli spettacoli più complessi e completi mai scritti da Loffarelli. Un viaggio nella storia politica e personale degli anni di piombo che Giancarlo ha condotto con un approccio storiografico, trasportando sul palco le atmosfere e i sentimenti e gli intrecci del tempo in una chiave asciutta ma esaustiva, dove il ritmo incalzante della recitazione non toglie nulla alla verità storica documentata con precisione, senza scadere nemmeno per un momento né in retorica né in giudizio, che è lasciato libero allo spettatore. Unica pièce non comica in rassegna, Se ci fosse luce ha convinto e commosso il Rossini, un teatro all’italiana dell’800, che ha riempito per la performance pontina, platea e i 4 piani di palchi, che hanno restituito a Giancarlo, Marina Eianti, Elisa Ruotolo, Luigina Ricci, Emiliano Campoli, Maurizio Tartaglione e la squadra dei tecnici audio e luci, tutte le emozioni vissute in due ore di spettacolo con una spontanea standing ovation, tanto da farli finire sulle migliori recensioni della stampa nazionale. Quanto ami questo testo? Ci sono particolarmente legato, perché vissi l’accaduto quando ero al liceo, e per me fu forte. Alcune volte il legame al testo è dovuto al fatto che sia stato più sfortunato, come mi è successo per “Il segreto di via Mecenate”. Ma per Se ci fosse luce il discorso è diverso perché di riconoscimenti ne ha avuti molti, è stato addirittura inserito in uno studio incentrato sul caso Moro nel cinema e nel teatro in Italia condotto da un’Università americana, che ha preso in considerazione proprio il mio lavoro insieme al testo di Baliani… Dunque un’eco internazionale…Sì, anche se per me la sorpresa più emozionante è stata essere citati nel libro ‘Un uomo così’, scritto dalla figlia, Agnese Moro. Nella seconda ristampa di due anni fa, che io ho comprato e riletto perché parla dell’uomo Moro con grande delicatezza evidenziando le sue sfaccettature private, ha aggiunto una parte dedicata ai viaggi da lei effettuati per parlare di suo padre nei convegni e nelle conferenze, e si è soffermata sul nostro spettacolo descrivendolo come uno dei più belli mai visti. Che poi era stata sempre ritrosa ogni volta che l’avevo invitata ad assistere, aveva forse una sorta di timore…e invece ad Avellino lo vide. Così, poiché collabora anche su La Stampa curando una rubrica domenicale sulle realtà sociali positive dell’Italia, ha raccontato delle iniziative dell’Associazione culturale Le Colonne. Dagli anni del liceo è passato moltissimo tempo prima che ti mettessi a scriverlo. Com’è nato Se ci fosse luce? Nel 2002 ho cominciato a studiarlo in maniera analitica, leggendo tutto lo scibile e gli incartamenti ufficiali e non del caso, gli atti della commissione parlamentare d’inchiesta, gli atti giudiziari, tutto, e l’ho terminato nel 2006. Vagamente avevo pensato a una messa inscena, ma in realtà m’interessava approfondire, e non mi ero soffermato sul come realizzarlo. L’obiettivo era renderlo comprensibile anche a chi non conosce tante cose. Devo dire che le maggiori soddisfazioni le ho avute proprio dal raggiungimento di questo obiettivo, poiché nelle date per i ragazzi, gli studenti sono sempre stati catturati, interessati e colpiti. Il titolo da dove nasce? Dall’ultima lettera alla moglie. Dopo un momento in cui sembrava che sarebbe stato liberato, in quell’ultima missiva Moro cambia stato d’animo, e capisce che non rivedrà mai più i suoi cari, e pensando probabilmente all’aldilà, scrive “… se ci fosse luce, sarebbe tutto più bello”. Per un teologo come te questo tema deve aver avuto un peso particolare… Mi ha sempre affascinato la filosofia della fede di Moro, ma anche l’assoluta convinzione che la politica dovesse essere slegata dalla religione. Noi abbiamo fatto un documentario anche su quest’aspetto specifico. Ancora prima del Compromesso storico, a Moro dal Vaticano arrivarono tante pressioni affinché non aprisse a sinistra. Lui ascoltò tutti ma andò avanti per la sua strada. La mediazione naturale che è l’antidoto all’integrazione che s’innesta nella libertà di coscienza, è il fondamento della religione cattolica. E Moro lo scriveva: in coscienza si sceglie. Cosa ami di più del teatro, che riempie la tua vita da sempre? I brividi che mi dà, ne ho bisogno. Hitchcock diceva: “per voi è soltanto cinema, per me è la vita”. La fantasia, l’emozione di emozionare, di trasmettere qualcosa, sia come attore e regista, sia come autore. Il mio primo spettacolo fu quando avevo 15 anni, Processo a Gesù, e da allora non ne ho più potuto fare a meno. Quanto è stato importante l’appoggio della tua famiglia? E’ stato ed è tuttora fondamentale. Mi hanno permesso di essere sereno nel dedicarmi a questa passione, hanno saputo partecipare ai miei progetti in modo discreto ma sincero, regalandomi sorrisi e consigli. Nella tua attenzione per il dettaglio si legge il grande rispetto che hai nei confronti del pubblico, ma anche la tua tendenza a lasciare liberi gli interpreti di trovare il personaggio indica grande fiducia ma soprattutto racconta un approccio professionale ma non professionistico al teatro, un approccio col cuore… Sono profondamente convinto che il dettaglio sia sostanza, nulla legittima la sciatteria, e che si debba abolire la sterile distinzione tra attori amatoriali e professionisti. Storicamente, il teatro nasce dal connubio di Stanislavskij e Checov, che di lavoro non facevano gli attori. Quando potremo applaudirvi di nuovo nei nostri teatri? Il 29 e 30 novembre saremo a Terracina con Etty Hillesium in occasione della presentazione della biografia, e poi la prima settimana di febbraio, saremo in scena all’Auditorium Costa di Sezze con Zio Vanja di Cechov.