Daniele Nardi in Vetta al Mondo

Daniele Nardi in Vetta al Mondo
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Classe ’76, fisico allenato e occhio attento: il tipico sguardo di chi possiede un grande acume, di chi ha padronanza di se e dei propri limiti. In verità di limiti, Daniele, ne ha davvero pochi. Ha iniziato con l’arrampicata sportiva sulla parete rocciosa che delimita lo strapiombo sermonetano, con una corda di sicurezza, tanta incoscienza e poco più. E’ uno sportivo che conosce palmo a palmo le falesie delle Placche Rosse, quella lunga fascia calcarea che persiste proprio sotto Norma, e poi lo Scoglio dell’Araguna, La Grotta del Pipistrello, la Gola dei Venti. Per chi parte dai Monti Lepini, come lui, perfettamente conscio che sia quasi impossibile essere profeta in patria, il più alto monte che può percorrere è il “Semprevisa”, 1536 metri sul livello del mare.Daniele Nardi conosce i suoi limiti ed è pronto anche a rinunciare “momentaneamente “ ai suoi sogni. L’ultimo era di scalare la montagna assassina, il “Nanga Parbat”. Ci ha provato in tutti i modi nei 46 giorni che è rimasto lì tra il campo Base e i Campi 1 e 2 collocati più in alto, ma si è dovuto arrendere alle condizioni climatiche proibitive che non gli hanno consentito di procedere in sicurezza alla scalata. Nel tentativo di aprire una nuova via sullo sperone Mummery del Nanga Parbat, hai avuto non poche difficoltà, ed alla fine hai dovuto rinunciare. Come hai vissuto quei momenti? “Salire lo sperone Mummery d’inverno, significa pensare la salita più o meno in quattro sezioni simmetriche tra loro, metro più metro meno. Poi bisogna aggiungere il freddo e il tempo variabile difficilmente prevedibile. Correnti che si sovrappongono ad altitudini differenti, e mani e piedi che a più di seimila metri sono pericolosamente esposte al congelamento repentino. Rinunciare perché la montagna è stata più forte di me non è una sconfitta, ma una lezione di vita. Il Nanga Parbat è stata l’esperienza alpinistica più straordinaria della mia vita, calcolando poi che l’ho tentata solo venti giorni dopo il Broad Peak, 8.047 metri.” Leggendo la tua biografia ho notato che hai scalato quattro “ottomila”, ovvero quattro montagne che arrivano ad un’altezza pari o superiore agli ottomila metri. Quali sono i momenti salienti delle spedizioni? “Sono diversi in realtà. Innanzitutto preparare le attrezzature. Bisogna riuscire a non caricare troppo materiale da trasportare fino al campo base che inciderebbe troppo sul peso degli zaini, ma rendersi conto nello stesso tempo che potresti dover rinunciare alla vetta, per mancanza di piccoli oggetti che possono rompersi o che il vento può strapparti via, ed è per questo che io preferisco doppiare ogni singolo attrezzo. Per ciò che riguarda la preparazione personale, poi, ci sono due aspetti fondamentali: l’acclimatamento e la padronanza di se. La prima consiste nella procedura seguita dall’alpinista per abituarsi alle quote elevate, specie al di sopra dei 4.000 metri di altitudine, atta ad evitare i disturbi tipici del mal di montagna, che possono portare, nei casi più gravi, all’insorgere dell’edema polmonare o cerebrale. Tale procedura consiste in un avvicinamento graduale all’alta quota, con soste frequenti e possibilmente anche con pernottamenti ad altitudini via via più elevate”. Cosa bisogna conoscere di se

Daniele Nardi
Daniele Nardi

per averne padronanza, nel tuo sport? “Bisogna essere leader di se stessi, motivarsi e creare un buon gruppo. La capacità di costruirsi un buon team è assolutamente alla base di ogni progetto, e non solo nel mio sport ma nella normale vita quotidiana”. E’ per questo che hai studiato un programma di counseling aziendale che applica le regole dello sport estremo alla formazione manageriale? “E’ un’idea che condivido assieme alla mia amica, nonché campionessa di apnea ad assetto co-stante, Ilaria Molinari. In realtà la cosa che emerge in ogni sport estremo, che spinge a superare ogni limite faticosamente raggiunto, è che il vero traguardo diventa prima la vetta dentro se stessi, e solo successivamente sul K2 o nelle profondità abissali. Le condizioni estreme in cui il fisico è messo a dura prova, e in cui la mente prende consapevolezza che quello è un cammino di non ritorno, se non prima di aver raggiunto la meta e oltrepassato il limite massimo, possono essere applicate e paragonate ad alcune situazioni manageriali. Il mio apporto aiuta a comprendere i meccanismi sabotatori che spesso, e senza accorgercene, la nostra stessa mente attua”. Quali sono i tuoi prossimi progetti? “E’ appena uscito il mio libro “In vetta al mondo” scritto a quattro mani con il mio amico giornalista Dario Ricci, dove racconto appunto la mia esperienza ed in particolare quella della mia ultima spedizione. Inoltre stiamo preparando un nuovo libro de-dicato a grandi sportivi italiani che incontrarono la grande guerra”. Ancora una volta uno sportivo della provincia di Latina, riesce a sfatare il mito del “nessuno è profeta in patria” grazie al suo talento e al grandissimo lavoro che sta dietro ad ogni suo successo. Alla prossima arrampicata, alla prossima scalata, alla vetta che ognuno di noi si prefigge di arrivare: forza Daniele!


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